Lungo il confine tra Burundi e Rwanda

Lasciamo Kigoma e il grande specchio del Lago Tanganica diretti verso nord, seguendo le piste che costeggiano il confine tra Tanzania, Burundi e Rwanda. La strada si snoda tra colline di laterite rossa, piantagioni di manioca e bananeti che disegnano terrazze sulle pendici. È una zona fertile e silenziosa, ma nel 1994 porta addosso il peso della storia: a poche decine di chilometri, oltre il confine, si consuma la tragedia del genocidio in Rwanda, e l’atmosfera lungo la nostra strada è sospesa, quasi irreale.

Ogni tanto incontriamo un convoglio: camion dell’ONU, fuoristrada di organizzazioni umanitarie, militari tanzaniani di pattuglia. Sulle fiancate, le scritte bianche su fondo blu — UNHCR, World Food Programme, Red Cross — raccontano di un’umanità in movimento. Decine di mezzi ruggiscono lungo la pista, carichi di tende, sacchi di riso e aiuti destinati ai profughi ammassati oltre il confine. In quell’anno, più di un milione di persone attraversano la regione cercando rifugio: un fiume umano che trasforma villaggi, strade e missioni in improvvisati centri di accoglienza.

NOTA STORICA

1994 – Il genocidio del Rwanda, la ferita dei Grandi Laghi

Tra l’aprile e il luglio del 1994, il Rwanda fu travolto da uno dei genocidi più rapidi e devastanti del XX secolo. In soli 100 giorni, circa 800.000 persone — in gran parte Tutsi e Hutu moderati — furono massacrate da milizie armate e civili sobillati dal regime. La scintilla fu l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, ma le cause affondavano in decenni di divisioni etniche e tensioni alimentate dal colonialismo europeo, che aveva esasperato le differenze tra Hutu e Tutsi.

Le violenze si diffusero capillarmente: villaggi rasi al suolo, famiglie annientate, radio che incitavano all’odio. La comunità internazionale rimase inerte, incapace di intervenire. Solo a luglio, con l’avanzata del Fronte Patriottico Ruandese guidato da Paul Kagame, il Paese uscì dal massacro, ma a costo di una distruzione immane.

Le conseguenze toccarono anche i Paesi vicini: centinaia di migliaia di profughi attraversarono i confini verso Congo, Burundi e Tanzania, trasformando città come Kigoma e Kasulu in centri di emergenza umanitaria. Per chi viaggiava allora lungo quelle strade — come noi nel 1994 — era difficile comprendere l’entità della tragedia che si stava consumando poco più a nord. Oggi, il Kigali Genocide Memorial ricorda le vittime e invita alla riconciliazione, testimoniando il coraggio di un popolo che ha scelto di guardare avanti senza dimenticare.

Dopo una giornata infinita di sterrato, scossi dalla polvere e dai sobbalzi, raggiungiamo un piccolo centro dove sorge una missione cattolica. Non è un lodge né un campeggio, ma un cortile sicuro dove sistemare tende e stuoie. I muri spogli e le aule scolastiche con banchi di legno testimoniano la semplicità del luogo, ma l’accoglienza è genuina: un po’ d’acqua per lavarsi, un tè caldo e un sorriso bastano a farci sentire di nuovo protetti. Dopo ore di incertezze e rumori di convogli lontani, quel piccolo spazio di quiete diventa un rifugio prezioso. È uno di quei posti che non compaiono sulle mappe turistiche, ma che restano impressi nella memoria per il loro calore umano.

Un villaggio della Tanzania

Oggi, la missione di Biharamulo, cuore della diocesi locale, è ancora attiva. Attorno alla cattedrale si sono sviluppati scuole, un ospedale e case religiose, segno di una comunità viva. Non è più tappa abituale dei viaggiatori come negli anni ’90, perché la strada è oggi asfaltata e le guesthouse hanno sostituito quelle ospitalità improvvisate che offrivano riparo e un letto di fortuna. Ma il cortile e la chiesa restano simbolo di continuità: un punto fermo tra passato e presente, memoria di un’Africa che, nel pieno dell’incertezza, sapeva ancora offrire accoglienza a chi la percorreva “on the road”.

Oggi questa regione resta una delle più affascinanti e poco battute della Tanzania nord-occidentale. Le antiche piste di frontiera sono state in parte asfaltate, i collegamenti tra Kigoma, Kasulu e Kakonko sono migliorati, e il traffico commerciale con il Burundi si è intensificato. Tuttavia, la zona conserva un’atmosfera remota, lontana dai circuiti turistici principali. Qui si percepisce ancora la transizione tra l’Africa dei Grandi Laghi — umida, verde e collinare — e quella della savana, che poco a poco si apre verso est.

Attraversando l’altopiano verso il Lago Vittoria

Lasciamo Biharamulo alle prime ore del mattino, quando la luce è ancora morbida e la polvere dorme tra i cespugli. La pista si apre davanti a noi come un nastro di terra rossa, arsa dal sole e segnata dai solchi dei camion. Ogni ruota solleva nuvole di polvere che si appiccicano alla pelle e velano il paesaggio con una foschia rossastra, quasi granulosa.

Nel 1994, non era altro che una pista di terra rossa, e viaggiare significava affrontare ore di sobbalzi, guadi e deviazioni improvvisate per evitare i punti più dissestati. Ogni chilometro portava con sé una scena diversa: bambini scalzi che correvano gridando “mzungu!”, donne con fascine di legna sul capo, carretti trainati da buoi e mercatini improvvisati dove il profumo del carbone si mescolava alla frutta matura. Era un’Africa ancora rurale e silenziosa, dove il tempo scorreva al ritmo dei passi e delle stagioni.

Pastori masai lungo una pista in Tanzani

Oggi, la strada principale è asfaltata e scorre liscia, percorsa da camion e minibus diretti a Mwanza o Bukoba. Le nuove stazioni di servizio e i chioschi di street food punteggiano la carreggiata, vendendo spiedini di capra e banane arrostite. È cambiata la geografia del viaggio: l’asfalto ha reso più facile il transito, ma ha cancellato quel senso di frontiera e isolamento che accompagnava ogni tappa.

Poco dopo, la rotta attraversa Katoro, un tempo semplice villaggio di transito e oggi centro vibrante, cresciuto grazie all’estrazione dell’oro nelle miniere circostanti. Nel 1994, qui si arrivava stanchi, spesso costretti a soste forzate per raffreddare il motore o riparare una ruota; oggi, tra officine, negozi e distributori, Katoro è il simbolo di un’Africa che corre più veloce, sospinta dall’economia mineraria.

Proseguendo verso est, la strada entra nella regione di Geita, allora una delle più remote della Tanzania. Nel 1994, la pista si perdeva tra boschi di miombo e radure sabbiose, e il rischio di rimanere insabbiati era una costante. Pochi i mezzi incrociati: qualche Land Rover carica di bidoni, camion che arrancavano tra le buche e pastori che si aprivano il passaggio tra la polvere. Oggi, il paesaggio è irriconoscibile: miniere d’oro a cielo aperto hanno trasformato colline e villaggi, e la città di Geita è diventata un polo economico in piena espansione. I convogli di camion carichi di minerale hanno sostituito i rari viaggiatori di un tempo, e l’eco dei motori accompagna ora l’intera traversata.

La nostra Toyota attraversa un villaggio africano

Piegando a sud all’altezza di Sengerema la pista raggiungeva il braccio d’acqua del lago Vittoria a Busisi, dove si attendeva per ore intere che il traghetto si riempisse di camion, biciclette, capre e sacchi di farina. Il viaggio sul lago durava oltre due ore e aveva il ritmo lento dei racconti africani.

Oggi, quel mondo appartiene al passato. Nel 2025, il ponte Kigongo–Busisi, conosciuto anche come John Pombe Magufuli Bridge, ha sostituito definitivamente i traghetti. Con i suoi 3,2 chilometri, è il più lungo ponte dell’Africa orientale e centrale, collegando le due sponde in pochi minuti e rivoluzionando i trasporti della regione. Realizzato con investimenti statali e la collaborazione di imprese cinesi, il ponte è diventato un’arteria strategica per il commercio e il turismo del Lago Vittoria, connettendo i distretti di Misungwi e Sengerema e integrando un’area che per secoli è rimasta separata dall’acqua.

Dopo la traversata, il profilo di Mwanza si disegna all’orizzonte. Nel 1994, l’arrivo alla città era un sollievo profondo: le piste sconnesse lasciavano posto al primo asfalto, e le rocce granitiche che emergono dal lago apparivano come guardiani di pietra. Oggi, Mwanza è una metropoli in piena espansione, seconda città della Tanzania, con hotel moderni, supermercati e un traffico frenetico che stride con la quiete di trent’anni fa. Eppure, al tramonto, quando la luce scivola sul Lago Vittoria, tutto sembra tornare come allora: lo stesso silenzio, lo stesso luccichio d’acqua, lo stesso battito lento di un’Africa che, sotto l’asfalto, continua a respirare.

Verso il Serengeti: la porta di Ndabaka

Lasciamo Mwanza alle spalle all’alba, quando la città si risveglia tra i mercati e i primi traghetti che solcano il Lago Vittoria. La strada — oggi perfettamente asfaltata — si infila tra colline di granito e villaggi animati, dove i negozi aprono le serrande e le donne spazzano la polvere davanti alle case. Nel 1994, questo tratto era tutt’altra cosa: una pista sabbiosa, percorribile solo in fuoristrada, che serpeggiava tra i campi e le boscaglie. Ogni passaggio alzava una nuvola di terra rossa, e ogni curva nascondeva una sorpresa: un gruppo di babbuini ai bordi della strada, un carretto trainato da buoi, o un vecchio autobus carico all’inverosimile.

L'ingresso occidetale del Serengeti presso il Ndabaka Gate

Il viaggio verso est segna un cambio di scenario: l’umidità del lago lascia spazio a un paesaggio più secco e aperto. Le colline si abbassano, la vegetazione si dirada e la savana comincia a farsi sentire. I colori cambiano — dal verde lucente al giallo oro — e l’orizzonte si allunga fino a scomparire. Nel 1994, la sensazione era quella di varcare una soglia invisibile: dietro, l’Africa dei Grandi Laghi, popolata e verde; davanti, l’Africa delle pianure, solenne e silenziosa.

Nel 1994, arrivare al Ndabaka Gate era un momento carico di attesa. Non c’erano folle di turisti né lodge eleganti: solo una barriera di legno, un piccolo ufficio dei ranger e una lavagna con i prezzi in scellini tanzaniani. L’ingresso era quasi cerimoniale: si firmava un registro, si stringeva la mano a un ranger, e poi si varcava il cancello, lasciandosi alle spalle il mondo abitato. Il terreno diventava più ondulato, e all’improvviso la savana del Serengeti si apriva come un mare d’erba. Era l’inizio di un altro viaggio, fatto di piste che si perdevano all’orizzonte e di silenzi che parevano infiniti.

Oggi, il Ndabaka Gate è uno degli accessi più importanti del Serengeti National Park, scelto da chi arriva dal Lago Vittoria o da Mwanza per evitare la rotta classica da Arusha. Le piste sono state migliorate, i ranger dispongono di radio e terminal elettronici, e un piccolo centro d’accoglienza illustra la fauna e i percorsi. Tuttavia, nonostante i progressi, il senso di soglia rimane intatto: appena oltre il cancello, il traffico svanisce e il mondo si fa natura.

NOTA GEOGRAFICA

La grande migrazione: il respiro eterno del Serengeti

Ogni anno, tra il Serengeti (Tanzania) e il Masai Mara (Kenya), si muove una delle più grandi migrazioni terrestri del pianeta: oltre 1,5 milioni di gnu, accompagnati da centinaia di migliaia di zebre e gazzelle di Thomson, compiono un ciclo senza fine in cerca di erba fresca e acqua. È un viaggio di circa 800 chilometri, che segue il ritmo delle piogge e scandisce la vita dell’intero ecosistema.
Il viaggio inizia nel sud del Serengeti, nella pianura di Ndutu, dove tra gennaio e marzo si concentrano le nascite: in poche settimane vengono al mondo fino a mezzo milione di piccoli gnu. Con la fine delle piogge, i branchi si spostano a nord-ovest, attraversando il fiume Grumeti tra maggio e luglio, un momento cruciale e spettacolare: le correnti, i coccodrilli e i predatori mettono a dura prova la sopravvivenza di ogni animale.

Da agosto a ottobre, la migrazione raggiunge i pascoli del Masai Mara, in Kenya, dove resta finché le piogge non richiamano i branchi di nuovo verso sud. È un ciclo continuo, antico come la savana stessa, che unisce le due nazioni in un unico respiro vitale.
Più che uno spettacolo, la Grande Migrazione è un equilibrio ecologico perfetto: regola la crescita dell’erba, alimenta i predatori e modella il paesaggio del Serengeti. Osservarla significa assistere alla pura essenza della vita selvaggia, un movimento incessante che ricorda al viaggiatore quanto fragile e interconnesso sia il mondo naturale.

L’ingresso da Ndabaka conserva un fascino particolare. È meno celebrato rispetto a quelli di Seronera o Naabi Hill, ma forse proprio per questo più autentico. Da qui il Serengeti si mostra nella sua forma più pura: distese di erba dorata, acacie isolate, orizzonti infiniti. È un mondo in cui il tempo rallenta e la mente si svuota. E quando al tramonto le prime iene ululano tra le colline e il sole scivola dietro le praterie, si capisce di essere entrati in un luogo che non appartiene al presente, ma all’eternità.

Prima notte nel Serengeti: dormire tra i ruggiti

Entrare nel Serengeti dopo il tramonto è sempre un rischio. Le regole del parco sono chiare: prima del tramonto bisogna essere accampati, al sicuro nei campeggi designati. Ma quella sera, quando arrivammo, una pioggerellina insistente aveva trasformato le piste in fangose scie di terra scivolosa. Il nostro veicolo, guidato da un autista alle prime armi, iniziò a slittare più volte, fino a impantanarsi in un tratto erboso. Le ruote giravano a vuoto, sollevando schizzi di fango che profumavano di erba bagnata e paura.

Nel silenzio teso della savana, l’unica luce erano i fari del mezzo, che si allargavano come coni tremolanti nel buio. Fu allora che apparvero: un branco di leoni intenti ad abbeverarsi a una pozza, le teste chine e gli occhi che brillavano di riflessi ambrati. Nessuno parlava. Ogni gesto era calibrato, ogni suono temuto. Spingere il fuoristrada significava uscire dal rifugio dell’abitacolo e misurarsi con il respiro profondo della notte africana. Quando finalmente il motore tornò a ruggire, fu come liberarsi da un incantesimo.

Un leone nella savana del Serengeti
Elefanti nel Serengeti

Vista l’ora tarda, l’accampamento fu improvvisato in una radura isolata, senza recinzioni né punti di riferimento. Montammo le tende in fretta, mentre tutt’intorno i barriti degli elefanti e le voci lontane delle iene scandivano il buio. Nessuna luce artificiale, nessuna presenza umana oltre a noi. Solo la savana che respirava, viva e onnipresente. Era un campeggio precario, certo, ma anche la quintessenza di quella wilderness assoluta che oggi è difficile ritrovare: un contatto diretto, crudo, con la notte africana.

Oggi, la stessa zona attorno a Seronera è diventata il cuore pulsante del parco. Le tende si piantano solo in aree designate come il Nyani o il Pimbi Public Campsite, piccoli spazi recintati dalla prudenza più che dal filo spinato. Qui non ci sono barriere né comfort moderni, ma abluzioni essenziali, cucine comuni e una presenza discreta dei ranger. L’energia elettrica è un lusso raro, l’acqua calda un dono della legna. Eppure, al calare del sole, quando le ombre si allungano sulle praterie e i ruggiti dei leoni si confondono con il vento, l’emozione resta la stessa.

Nel silenzio del Serengeti la notte ha mille voci. Domani, tra vulcani sacri e laghi infuocati, il viaggio ci porterà nel cuore della Rift Valley, fino al bordo del Ngorongoro, dove l’Africa si specchia nel suo cratere più profondo. Continua a leggere la nostra storia e segui la prossima tappa del viaggio.

Un masai in primo piano sul lago Natron

Dal Serengeti al Lago Natron: sulle piste della Rift Valley

Lasciamo Seronera all’alba, quando la savana si tinge d’oro e le prime giraffe si stagliano come sentinelle tra le acacie. La pista si allunga verso sud-est, attraversando ampie pianure punteggiate da kopje granitici e arbusti spinosi. Nel 1994, questo tratto era una traccia di terra battuta, segnata appena da…

Read More
Un ragazzo carica tronchi di legno sulla barca

Lungo il Lago Tanganica: viaggio d’acqua e di confine

Al mattino, il porto di Mpulungu è già in fermento. Sulle banchine si accatastano sacchi di mais, casse di birra Mosi, reti da pesca, biciclette e galline, tutto in attesa di essere caricato. L’aria è impregnata di odore di gasolio e pesce essiccato, e tra il fumo dei motori…

Read More
Lungo la grande arteria che taglia la Tanzania meridionale.

Dalle savane del Selous al Lago Tanganica

Lasciamo il Selous con la sensazione di uscire da un mondo sospeso. Le piste che risalgono verso nord-est seguono ancora il profilo del Rufiji River, poi si perdono tra boscaglie e colline, fino a riconnettersi alla grande arteria della T1, nei pressi di Morogoro. È un ritorno al traffico,…

Read More

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Scroll to Top