Lasciamo il Selous con la sensazione di uscire da un mondo sospeso. Le piste che risalgono verso nord-est seguono ancora il profilo del Rufiji River, poi si perdono tra boscaglie e colline, fino a riconnettersi alla grande arteria della T1, nei pressi di Morogoro. È un ritorno al traffico, ai villaggi affollati e ai camion diretti verso Dar es Salaam: il brusco risveglio dopo giorni di silenzio nella savana.
Nel 1994 la strada era lunga e faticosa, spesso interrotta da tratti sterrati o ponti precari. Oggi l’asfalto collega in modo più agevole la regione, ma il contrasto tra la wilderness del Selous e il fermento di Morogoro resta lo stesso. La città, incorniciata dai monti Uluguru, è ancora una sosta ideale per rifornirsi e riprendere fiato prima di affrontare la grande risalita verso l’interno.
Verso Mbeya: la lunga traversata
Lasciamo alle spalle Morogoro dopo una notte trascorsa in città e torniamo sulla Tanzam Highway, la grande arteria che collega la costa all’entroterra. Il viaggio verso Mbeya attraversa ancora una volta il Mikumi National Park, dove la strada taglia il parco per decine di chilometri, incastonata tra pianure dorate e colline di miombo. Qui il confine tra natura e infrastruttura si dissolve: le zebre attraversano lente l’asfalto, le giraffe si stagliano sullo sfondo delle acacie, e nei pressi dei corsi d’acqua si intravedono persino gli ippopotami che emergono dal fango. I cartelli stradali avvertono con realismo: “Pericolo: animali selvaggi per 50 km”, accompagnati da triangoli rossi con elefanti stilizzati.
Al gate del parco, un piccolo museo documenta con crudezza la convivenza difficile tra fauna e viabilità. Le fotografie mostrano le vittime della strada — zebre abbattute, bufali, persino elefanti colpiti dai camion — e i dati sono impressionanti: in media 90 animali al mese vengono uccisi dai veicoli che attraversano il Mikumi. È un monito silenzioso al viaggiatore moderno, costretto a bilanciare la velocità della civiltà con la lentezza della vita selvatica.

Superato il parco, la strada si allunga verso gli altipiani meridionali. Il traffico diminuisce, i villaggi diventano più radi e la savana lascia spazio a terreni coltivati. Attraversiamo Iringa, poi Makambako, nodi stradali animati da mercati, officine e baracchini di frutta. Qui il viaggio riprende ritmo: il paesaggio cambia, le colline si fanno più verdi e la temperatura cala man mano che ci avviciniamo a Mbeya, incastonata tra montagne e piantagioni di tè e caffè.
Negli anni ’90 questa era una delle tratte più dure e polverose del nostro itinerario: oltre 600 km e lunghe ore di guida, pochi punti di rifornimento e una sensazione costante di isolamento. Oggi la T1 è completamente asfaltata e il percorso è più agevole, ma il fascino resta intatto. Viaggiare lungo questa dorsale significa attraversare la Tanzania più autentica, quella che vive ai margini dei parchi e sotto l’ombra delle montagne. Ogni curva rivela un frammento d’Africa: un gruppo di bambini che corre sulla strada, una donna che vende banane sul ciglio, un tramonto infuocato che incendia la polvere.
A Mbeya ci si arrivava stanchi, accolti da una città di frontiera senza fronzoli, più funzionale che bella. Era una sosta obbligata, un punto di passaggio con poche guesthouse spartane e ristoranti locali dove mangiare riso e fagioli, tra mercati brulicanti e poca scelta. Nessuno veniva a Mbeya per fermarsi: era solo una tappa per rifornirsi e ripartire verso i grandi parchi del sud o per proseguire lungo la strada che portava a Dar es Salaam.
Oggi Mbeya si è trasformata in una delle città più importanti della Tanzania meridionale. A oltre 1.700 metri d’altitudine, circondata da altopiani verdissimi e piantagioni di tè e caffè, gode di un clima fresco e piacevole che la distingue dal caldo torrido della Rift Valley. Cresciuta come centro economico e universitario, offre banche, supermercati, guesthouse accoglienti e hotel di media categoria, insieme a una ristorazione più varia rispetto al passato.

Mbeya resta una tappa strategica per chi viaggia via terra: snodo di collegamento tra Malawi, Zambia e Tanzania centrale, è servita da stazioni di autobus che raggiungono ogni angolo del Paese e dalla storica ferrovia TAZARA, che la unisce a Dar es Salaam e Lusaka.
Pur non essendo una meta “da cartolina”, Mbeya affascina per il territorio che la circonda. Da qui si possono esplorare il Monte Rungwe e il Kitulo National Park, soprannominato “Il giardino di Dio” per le spettacolari fioriture di orchidee e piante alpine tra novembre e aprile. A sud, le piantagioni di tè si stendono a perdita d’occhio, offrendo scorci pittoreschi e visite guidate, mentre a ovest si apre la via verso il Parco Nazionale di Ruaha e il confine zambiano.
Oltre il confine: verso Mpulungu e il Lago Tanganica
Nel 1994, partire da Mbeya alla volta dello Zambia non era un’impresa da poco. Non esistevano agenzie di noleggio, né compagnie in grado di organizzare trasferimenti transfrontalieri. I viaggiatori dovevano contare su passaggi di fortuna, mezzi privati e sulla disponibilità di autisti locali pronti a lanciarsi in un’avventura inedita. Dopo una lunga ricerca, riuscimmo a trovare un minibus disposto a spingersi fino a Mpulungu, sul Lago Tanganica. I due autisti, emozionati all’idea di attraversare il confine con un gruppo di stranieri, vivevano la spedizione con lo stesso entusiasmo ingenuo dei passeggeri.
L’illusione di un passaggio rapido svanì quasi subito. Al valico di Tunduma–Nakonde, il rimanemmo bloccati per oltre sei ore: quella sera tutti i funzionari erano impegnati nello sdoganamento di un treno merci — un evento raro, appena uno o due a settimana, ma sufficiente a paralizzare l’intera dogana stradale. L’attesa si trasformò presto in stanchezza e nervosismo; il buio calò, i camion restavano immobili e nessuno sembrava sapere quando si sarebbe potuto ripartire.
Quando finalmente le barriere si aprirono, era ormai notte fonda. Il minibus si avventurò lungo la pista sterrata che si inoltrava tra i boschi zambiani, senza cartelli né punti di riferimento. La luna illuminava appena la vegetazione e il rumore dei fiumi nascosti accompagnava il procedere lento del mezzo. L’incontro con due contadini fu provvidenziale: furono loro, armati solo di torce a pila, a condurci fino al villaggio più vicino, dove il maestro della scuola ci offrì ospitalità. L’edificio, in cemento grezzo e senza finestre, aveva banchi di mattoni e un pavimento di terra battuta: un rifugio improvvisato, ma sufficiente per riposare dopo una giornata infinita. Gli autisti dormirono nel pulmino, non senza svegliare più volte il villaggio premendo involontariamente il clacson nel sonno. Nel silenzio della notte africana, quel suono assunse un’eco quasi surreale, come un richiamo di spiriti nella foresta.

Probabilmente ci fermammo in un minuscolo villaggio come Nkangamo o Chipaka, appena oltre il confine. Oggi quei nomi appaiono quasi invisibili sulle mappe, ma quella notte furono il nostro porto sicuro, un puntino di luce in mezzo all’oscurità dello Zambia settentrionale.
Oggi il valico di Tunduma–Nakonde è tra i più trafficati dell’Africa australe. Migliaia di camion attraversano ogni giorno la frontiera, caricando merci tra Dar es Salaam e Lusaka. Le code possono durare ore, a volte giorni interi, e sebbene i servizi doganali siano più strutturati, la lentezza burocratica resta un tratto caratteristico. Sul lato tanzaniano regna un caos vitale: bancarelle, venditori di SIM card, officine e trasportatori che negoziano tariffe. Dal lato zambiano, invece, il ritmo si fa più calmo ma anche più formale, scandito da timbri e registri.
Le attese estenuanti non sono scomparse, ma oggi chi resta bloccato può almeno contare su guesthouse, piccoli lodge e stazioni di servizio. Niente a che vedere con la scuola senza finestre di trent’anni fa — eppure, il confine di Tunduma–Nakonde conserva lo stesso fascino sospeso: un luogo dove il tempo si dilata, la burocrazia domina, e ogni viaggio si misura non in chilometri, ma in ore di pazienza.
Arrivo a Mpulungu: il porto sul lago infinito
Nel 1994, superato il valico di Tunduma–Nakonde, lasciavamo alle spalle il caos doganale per immetterci su una lunga pista sterrata, quella che oggi porta il nome di D1. Allora non era che una traccia di polvere rossa, segnata da buche profonde e deviazioni improvvisate. Dopo i primi villaggi attorno a Nakonde, la strada si perdeva in un paesaggio di case di fango e paglia, bambini scalzi che salutavano incuriositi, e uomini in bicicletta che arrancavano tra sole e polvere. Ogni chilometro era un piccolo traguardo: la pista, scavata dalle piogge, costringeva a una marcia lenta e prudente, e qualunque guasto avrebbe potuto trasformarsi in un’avventura senza garanzie.

Procedendo verso nord, i panorami si aprivano su vallate silenziose e boschi di miombo, un mare verde punteggiato da baobab. Lentamente la pista saliva verso l’altopiano di Mbala — che in epoca coloniale si chiamava Abercorn — e da lì scendeva in una lunga serie di tornanti fino a Mpulungu, il porto zambiano sul Lago Tanganica. Erano ore di viaggio estenuante, senza cartelli né punti di riferimento, solo il ritmo costante del motore e la speranza di essere sulla strada giusta. Quando infine si scorgevano le acque del lago, calme e blu sotto la luce del tramonto, la stanchezza lasciava spazio a un senso di conquista: dopo giorni di piste, polvere e frontiere, l’Africa si apriva davanti a noi come un orizzonte liquido.
Nel 2025, lo scenario è radicalmente mutato. La D1, un tempo una semplice pista battuta, è oggi interamente asfaltata: parte di un importante corridoio regionale che collega il confine tanzaniano al grande lago. Dove un tempo passavano solo pochi fuoristrada e camion carichi di merci, ora scorrono bus di linea, minibus locali e convogli internazionali diretti verso Kasama e Lusaka. La dogana di Tunduma–Nakonde è diventata uno dei valichi più trafficati dell’Africa australe, e la città di Mbala è cresciuta fino a trasformarsi in un centro urbano vivace, con scuole, mercati coperti e guesthouse per viaggiatori.
Da Mbala, la discesa a Mpulungu è oggi un viaggio di meno di un’ora, lungo curve dolci che conducono al porto. Lì, sul molo, il tempo sembra muoversi a un ritmo proprio: pescherecci, barche passeggeri e chiatte commerciali animano l’acqua, mentre mercanti e pescatori scaricano casse di pesce essiccato e sacchi di cereali destinati ai villaggi lungo il Tanganica. È ancora un luogo di passaggi e partenze, ma con un volto più organizzato e moderno.
Eppure, basta fermarsi un istante — osservare il sole calare dietro le colline, ascoltare il richiamo lontano di una barca che parte — per ritrovare lo stesso respiro di trent’anni fa. Nonostante l’asfalto, i telefoni e il traffico, Mpulungu conserva l’anima dei luoghi di confine, dove ogni viaggio finisce e un altro comincia. Lì, tra il profumo di pesce e il vento che increspa il lago, si può ancora immaginare la polvere, il silenzio e la sorpresa dei viaggiatori che, nel 1994, raggiunsero il Tanganica dopo giorni di strada e di sogni.
Nkupi Lodge: un rifugio sul Tanganica
Quando, nel 1994, arriviamo a Mpulungu dopo giorni di pista e frontiere, il Nkupi Lodge appare come un miraggio sulla collina che domina il Lago Tanganica. È un piccolo rifugio nascosto tra i giardini, a una quindicina di minuti a piedi dal porto. Le capanne in pietra, coperte da tetti di paglia, si affacciano su un panorama che toglie il fiato: l’acqua immobile del lago, profonda e blu, incorniciata dalle colline dello Zambia settentrionale.
Il lodge è semplice ma accogliente: camere basiche con zanzariere e bagni condivisi, docce scaldate dal sole, un piccolo bar e un giardino ombreggiato dove gli ospiti si ritrovano a raccontare storie di viaggio. Non c’è lusso, ma c’è tutto ciò che serve dopo giornate di polvere e incertezze: un letto, un pasto caldo e la brezza del Tanganica.

Il nome Nkupi deriva da un pesce locale, una specie di tilapia che viene servita alla griglia con aglio e zenzero, simbolo della cucina del posto. Qui si ritrovano viaggiatori di ogni tipo — overlander, ciclisti, cooperanti, backpacker in attesa della MV Liemba, la storica nave tedesca che da oltre un secolo solca le acque del lago. In quegli anni il lodge era già un punto di riferimento, una sorta di “casa dei viandanti del Tanganica”: spartano, ma pieno di vita.
Le fotografie d’epoca lo mostrano come un piccolo complesso di capanne affacciate sull’acqua, base ideale per le escursioni verso le Kalambo Falls, le imponenti cascate di 213 metri che segnano il confine con la Tanzania.
Gestito da una famiglia locale, il Nkupi Lodge è sempre stato sinonimo di ospitalità. Il proprietario Dennis, figura carismatica e gentile, accoglieva gli ospiti come vecchi amici, mentre suo figlio si occupava della cucina e dell’organizzazione delle attività: escursioni in barca, immersioni PADI e trekking nei dintorni. La manager Charity è ricordata per il suo sorriso e per le grigliate di pesce servite al tramonto, quando il cielo si tingeva di oro e arancio sopra il lago.
Nel 2025, il Nkupi Lodge resta una delle migliori scelte a Mpulungu per chi viaggia via terra o zaino in spalla. Classificato tra le prime opzioni su TripAdvisor, conserva lo spirito dei vecchi campi africani: niente comfort superflui, ma la vista più bella del lago, il profumo di pesce grigliato e l’accoglienza di chi, da trent’anni, continua a offrire un letto e un sorriso ai viaggiatori del Tanganica.
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