
Dopo una sosta forzata a Iringa per le riparazioni del mezzo, il nostro viaggio riprende lungo la T1, la grande arteria che taglia la Tanzania meridionale collegandola a Dar es Salaam. Negli anni ’90 era una strada di pazienza e resistenza: tratti asfaltati si alternavano a buche profonde, corsie dissestate e deviazioni improvvisate sulla terra battuta. Percorrere i circa 260 km fino a Morogoro significava mettere in conto un’intera giornata di guida, con il rischio costante di guasti e imprevisti.
Con il calare della sera iniziava il tratto più delicato: l’attraversamento del Parco nazionale di Mikumi. Già allora la strada principale tagliava in due l’area protetta, e non era raro imbattersi in giraffe ferme sul ciglio dell’asfalto, zebre che attraversavano in fila indiana o elefanti che apparivano improvvisi dai cespugli. Di notte la tensione saliva: i fari illuminavano sagome appena percettibili e il pericolo di collisioni era reale.
L’arrivo a Morogoro avveniva in serata, quando la città, adagiata ai piedi dei monti Uluguru, si mostrava come un crocevia più che una meta. Le sistemazioni erano poche e spartane: l’Acropol Hotel, dal nome altisonante, aveva più l’aria di una pensione coloniale consumata dal tempo che di un albergo moderno. Eppure la sorpresa si nascondeva a tavola: il ristorante Mama Pierina, gestito da una donna di origini italiane e greche, serviva lasagne, pizza e piatti mediterranei che rappresentavano un inatteso conforto nel cuore della Tanzania.
Oggi la stessa tratta è più scorrevole: la T1 è completamente asfaltata e percorribile in 4–5 ore, ma il passaggio nel Mikumi NP rimane critico. Ogni mese si registrano incidenti con la fauna selvatica e i camion che sfrecciano a velocità sostenuta continuano a rappresentare un pericolo. Morogoro, invece, ha cambiato volto: è diventata una città vivace e universitaria, con più opzioni di alloggio e ristorazione. Eppure Mama Pierina resiste, come un’istituzione che accompagna da decenni i viaggiatori di passaggio, custode di una memoria di viaggio che unisce Africa ed Europa in un piatto di pasta fumante.
Selous Game Reserve: il gigante dell’Africa
Lasciamo Morogoro di buon’ora, ancora con l’eco della notte trascorsa in città, e imbocchiamo la lunga pista che segue, a tratti, il tracciato della storica ferrovia TAZARA. Nel 1994 questa strada non era un semplice collegamento, ma una vera avventura: oltre dieci ore di fuoristrada su sterrati polverosi, costellati di buche e massi che costringevano a continui sobbalzi. Il viaggio comincia con una discesa spettacolare verso una valle disseminata di rocce nere, massi monolitici che sembrano sculture abbandonate dal tempo.
Poi la pista si perde tra boscaglia e radure, punteggiate da villaggi di capanne in fango e paglia. I bambini corrono dietro al nostro fuoristrada, le mani alzate in saluto, le risate che rimbalzano nell’aria calda. In quegli anni il turismo qui era inesistente: la nostra presenza appariva come un miraggio estraneo, una mosca bianca nel cuore della Tanzania rurale.
La strada peggiora chilometro dopo chilometro, ogni tratto è una prova per il mezzo e per chi come me ha deciso di viaggiare sul tetto della landrover, aggrappato al portapacchi, scosso come un sacco di farina. Una sosta in un piccolo mercato diventa occasione per respirare: banchetti di frutta, frittelle cotte nell’olio bollente, bottigliette di soda tiepida. Poi di nuovo in pista, tra radure sempre più vuote, con la sensazione costante di aver smarrito la direzione. Solo al calare del sole appare il Matambwe Gate, ingresso al Selous, e sembra di aver raggiunto una salvezza temporanea.
Ma il viaggio continua: carichiamo a bordo una guida locale che non parla inglese e proseguiamo per ore nell’oscurità, fino a quando, esausti, raggiungiamo l’Impala Camp, uno dei pochissimi rifugi disponibili allora. È notte fonda, la stanchezza grava sui gesti, ma l’emozione di essere nel cuore del Selous cancella ogni fatica.
Oggi, a distanza di trent’anni, lo stesso itinerario conserva gran parte del suo fascino, pur con qualche cambiamento. La pista Morogoro–Kisaki–Matambwe è stata parzialmente migliorata: durante la stagione secca si percorre più agevolmente e i villaggi lungo la strada non appaiono più isolati come un tempo. Ora ci sono piccoli negozi, antenne telefoniche e persino cartelli di operatori come Vodacom. Dove il mercato offriva solo frutta e tessuti, oggi trovi frigoriferi alimentati da generatori e bibite fresche. Eppure lo spirito rimane intatto: la valle delle rocce scure è ancora lì, i bambini continuano a rincorrere i veicoli, anche se qualcuno ormai chiede una caramella o una penna in un inglese scolastico.
Il Selous, ribattezzato Nyerere National Park nel 2019, resta un gigante della wilderness africana. Con i suoi 50.000 km², è una delle aree protette più grandi al mondo: un mosaico di fiumi, lagune, savane e foreste che ospitano elefanti, bufali, ippopotami e una delle popolazioni più importanti di licaoni africani. Le piste interne oggi sono più curate, i campi tendati offrono standard internazionali e i lodge garantiscono comfort sconosciuti trent’anni fa. Ma la vastità, il silenzio e la sensazione di trovarsi in un luogo remoto e incontaminato non sono cambiati.
Sulle rive del Rufiji: una notte all’Impala Camp
Nel 1994, lungo le rive del fiume Rufiji, il nostro viaggio si fermò in un campo tendato spartano, poco più che un allestimento temporaneo: tende di tela montate su piattaforme di legno, un’area comune coperta da makuti e il fuoco serale come unico centro della vita del campo. Non c’erano recinzioni né comfort, solo l’essenziale per passare la notte in mezzo a una natura indomita. L’Africa si manifestava con tutta la sua forza: i grugniti degli ippopotami che risalivano dall’acqua, i ruggiti lontani dei leoni, il fruscio del vento che scuoteva la savana. Era un’esperienza totale, a metà tra avventura e precarietà, resa possibile da pochi operatori pionieri che montavano campi stagionali per piccoli gruppi di viaggiatori audaci.
Oggi, nello stesso punto, si trova il Selous Impala Camp, un lodge tendato che conserva l’atmosfera dei campi safari ma con un tocco di comfort moderno. Le tende sono permanenti, spaziose e dotate di bagno privato, con verande affacciate sul Rufiji. Il ristorante e il bar panoramico dominano la riva, mentre guide professionali organizzano safari in jeep, escursioni in barca e camminate nella savana. Non è più il rifugio improvvisato degli anni ’90, ma resta un luogo privilegiato per vivere il Selous/Nyerere in modo autentico, grazie alla posizione scenografica sul grande fiume.
Beho Beho Camp: lusso pionieristico nella wilderness
Dal Selous Impala Camp, sulle rive del Rufiji, si imbocca la pista che corre parallela al fiume. Negli anni ’90 era poco più di una traccia sabbiosa e sconnessa, segnata da buche profonde, tratti erosi dalle piogge e guadi improvvisati. L’andatura era lenta, raramente oltre i venti chilometri orari, e il paesaggio cambiava continuamente: boschi di miombo che filtravano la luce, radure punteggiate di baobab, savane dorate dove giraffe e zebre comparivano come visioni silenziose. Viaggiare su quelle piste significava abbracciare l’isolamento: ore intere senza incontrare un altro veicolo, con il solo rumore del motore e il vento che sollevava nuvole di polvere.

Dopo circa cinquanta chilometri e un paio d’ore di guida, la pista iniziava a risalire dolcemente le colline del Beho Beho, un paesaggio più verde e panoramico rispetto alle pianure del Rufiji. Qui, nel 1994, ci aspettava un campo spartano, allestito con piazzole per tende lungo il piccolo fiume omonimo. Non c’erano recinzioni, l’acqua arrivava con difficoltà e la logistica era affidata quasi interamente all’esperienza delle guide locali. Arrivare fin qui era già una conquista: un’avventura che regalava la sensazione di essere fuori dal mondo, accolti solo dal fuoco serale e dal concerto notturno della savana.
Oggi lo scenario naturale è rimasto intatto, ma il campo si è trasformato in uno dei lodge più esclusivi della Tanzania: il Beho Beho Lodge. Le vecchie piazzole hanno lasciato spazio a stone bandas eleganti, costruite in pietra e paglia, aperte sul paesaggio per offrire viste senza barriere sulla valle. Le attività si sono moltiplicate: safari a piedi accompagnati da ranger armati, game drive in zone remote e cene sotto le stelle servite con cura impeccabile. Le piste restano sterrate e impegnative, e i tempi di percorrenza non sono molto diversi da trent’anni fa, ma oggi è più facile incontrare altri veicoli diretti agli altri lodge privati della zona.
Il nostro percorso non si ferma qui. Dopo il Selous, la rotta punta verso est, seguendo il corso del Rufiji fino alle coste dell’Oceano Indiano. Attraverseremo foreste tropicali, villaggi di pescatori e città storiche per raggiungere Dar es Salaam, la grande porta dell’Africa orientale.
👉 Continua a seguirci nei prossimi articoli: scopriremo come la Tanzania cambia lungo il cammino, dalle savane del sud alle spiagge dell’Oceano, e come il viaggio di ieri trova nuovi significati nel presente. Ogni tappa è una storia, ogni strada una promessa.
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