Il mattino a Sakya si apre freddo e immobile. Nell’unico ristorante del villaggio — il vecchio Sichuan Lu Xu — l’odore di olio fritto riempie l’aria. Nel 1995 servivano frittatine e noodles in brodo, e i tavoli erano appiccicosi di umidità. È una colazione spartana, ma sufficiente per rimettersi in cammino.
Le Toyota fanno rifornimento e lasciano il villaggio sotto un cielo chiaro. La strada verso Shigatse segue il corso del Tsangpo, alternando tratti asfaltati a piste polverose. È un percorso ondulato, tra colline nude e campi di orzo che ondeggiano come sabbia dorata. Poco dopo le undici superiamo il Tso La, a 4.545 metri: un passo dolce, segnato da bandiere di preghiera che svolazzano sopra pietre annerite dal vento. Il valico apre la via verso il Tibet centrale, dove la terra si ammorbidisce e il respiro torna regolare.
La discesa verso Shigatse è ampia e luminosa. Le nuvole si alzano, e davanti si apre una valle popolata da case bianche, canali d’irrigazione e campi coltivati. Ma nel 1995 l’atmosfera in città era diversa. Appena arrivati, le nostre guide ci informarono che Shigatse era “chiusa” agli stranieri: la polizia cinese aveva imposto un blocco dopo scontri recenti tra monaci e militari, seguiti al rapimento del giovane Panchen Lama, avvenuto appena venti giorni prima. I turisti non potevano girare per la città né avvicinarsi al Monastero di Tashilhunpo, che si intravedeva soltanto da lontano: le pagode dorate brillavano al sole, ma restavano irraggiungibili, come un miraggio proibito.
Oggi Shigatse è tornata ad essere un centro vibrante. Le strade sono asfaltate, i mercati affollati e il Tashilhunpo, restaurato, accoglie di nuovo pellegrini e viaggiatori. Le stesse cupole dorate che un tempo potevamo solo osservare da lontano svettano oggi tra cortili silenziosi e bandiere colorate. È tornato il pellegrinaggio, ma l’ombra di quell’episodio rimane nelle cronache e nella memoria collettiva: un ricordo di quando la spiritualità e il potere si fronteggiavano sotto lo stesso cielo.
Nel 1995 restammo poco: un pranzo a buffet nello Shigatse Hotel, un edificio grande e impersonale, con corridoi deserti e personale che sorrideva senza parlare. Le finestre si affacciavano su strade vuote. Oggi, nello stesso edificio, ci sono luci al neon, Wi-Fi e un ristorante con menù bilingue. Ma chi ci entra la prima volta sente ancora quell’eco di silenzio controllato, come se le mura ricordassero il passato.
Dopo pranzo riprendemmo la marcia verso est. La guida cinese — nervosa — spinse per ripartire subito. Lasciammo Shigatse con la sensazione di aver attraversato un luogo importante senza poterlo toccare. La strada per Gyantse, allora non asfaltata, correva tra vallate ampie e fiumi color argento. Oggi quel tratto è liscio e veloce, ma la bellezza resta intatta: il sole che cala dietro le montagne, il vento che scuote i fili delle bandiere, il senso di avanzare nel cuore profondo del Tibet.
Alle 17:20 raggiungemmo Gyantse, una delle città più affascinanti del Paese. Il Gyantse Hotel, già allora sorprendentemente confortevole, ci accolse con acqua calda e lenzuola pulite: un lusso inatteso dopo giorni di altopiano. Più tardi, passeggiammo fino al Kumbum, la gigantesca stupa a nove piani che domina il monastero. Al tramonto, le cupole dorate si infiammavano di luce. Era come camminare dentro un mandala.
La sera, cena sontuosa a buffet offerta dal TIST — piatti cinesi fumanti, risate stanche, e poi, nella hall, uno spettacolo di dame tibetane in abiti tradizionali. Le melodie erano dolci, malinconiche. Fu una giornata di contrasti: spiritualità e controllo, paesaggi vasti e città chiuse. Un tratto di strada che mostrava tutto il Tibet — la sua bellezza, le sue ferite, la sua capacità di restare in piedi nonostante tutto.
Gyantse – Il Tibet intatto
Incastonata tra le montagne del Tibet centrale, a circa 3.800 metri di altitudine, Gyantse appare come un miraggio di pietra e luce. Situata lungo la via che collega Shigatse a Lhasa, è una delle poche città tibetane ad aver conservato l’impianto urbano originario: vicoli in terra battuta, case bianche dalle finestre azzurre e una cittadella fortificata che domina dall’alto l’intera valle del Nyang Chu, affluente dello Tsangpo.

Per secoli Gyantse è stata una tappa fondamentale sulla rotta commerciale India-Tibet. Mercanti di lana, tè e sale attraversavano queste strade, sostando nei caravanserragli ai piedi della fortezza. La città fiorì tra il XIV e il XV secolo come centro religioso e amministrativo, divenendo punto d’incontro tra la cultura tibetana e le influenze nepalesi e bhutanesi che risalivano dalle valli meridionali.
Il simbolo di Gyantse è il Monastero di Pelkor Chöde, fondato nel 1418 e circondato da alte mura di pietra. Al suo interno si erge il Kumbum, la più grande stupa del Tibet e una delle opere architettoniche più complesse del buddhismo himalayano. Alta oltre 35 metri, ospita 77 cappelle votive disposte in forma di mandala tridimensionale: un universo simbolico di statue, affreschi e reliquiari che raccontano il cammino verso l’illuminazione.
Dal suo terrazzo più alto si domina la città e la pianura circostante: l’orizzonte si stende fino ai rilievi del Karo La, dove i ghiacciai del Nojin Kangtsang brillano come fenditure di luce. La vista è immutata da secoli, come se il tempo avesse imparato a respirare più lentamente.
Accanto al monastero, si innalza la dzong, la fortezza di Gyantse. Le mura di pietra rossa, costruite nel XIV secolo, si arrampicano sul promontorio e raccontano la resistenza tibetana durante l’invasione britannica del 1904, quando un piccolo contingente locale oppose un coraggioso contrattacco alle truppe del colonnello Younghusband. Dalla sommità, le torri di guardia vegliano ancora sulla valle: simboli di orgoglio e memoria.
Da Gyantse a Lhasa: attraverso i tre passi
Il mattino si apre con la luce chiara che avvolge Gyantse, le mura della fortezza che vegliano sulla pianura del Nyang Chu e i colori ancora umidi del giorno nuovo. Ai piedi della dzong si tiene la celebre Horse Race, la corsa dei cavalli che da secoli anima l’estate del Tsang. I cavalieri indossano abiti tradizionali, decorano le criniere con nastri colorati e si lanciano nella pista al ritmo di tamburi e corni cerimoniali. Attorno, famiglie, pellegrini e curiosi si radunano in un mosaico di stoffe e sorrisi.
La gara è molto più di uno spettacolo: è un rito antico, una celebrazione collettiva della vita e del coraggio. Dopo la corsa, musicisti e danzatori in costume animano la piazza, tra incensi e canti gutturali. Ancora oggi, la festa si ripete ai piedi della fortezza, più regolata ma non meno intensa: è uno dei rari momenti in cui il Tibet sacro e quello laico si incontrano nello stesso respiro, sotto lo sguardo immutabile delle mura di Gyantse.
Dopo aver salutato il grande Kumbum e le stupa dorate del Pelkor Chöde, la via piega verso oriente, seguendo la Friendship Highway. La strada si arrampica tra colline color ocra e pendii spogli: inizia qui uno dei tratti più spettacolari del viaggio, la traversata dei tre grandi valichi d’alta quota che conducono alla valle sacra di Lhasa.
Il primo passo, il Simi La (4.380 m), è un valico dolce, ondulato, quasi pastorale. Le sue pendici si aprono in terrazze naturali dove l’orzo cresce sottile, dorato dal sole del mattino. Il vento corre leggero, portando l’odore della terra e del ghiaccio lontano. Da quassù, l’altopiano si stende come un mare pietrificato, interrotto solo dai riflessi dei canali d’irrigazione. È il punto di confine invisibile tra la regione del Tsang e il cuore del Tibet centrale, dove l’altitudine comincia lentamente a declinare e l’orizzonte si allarga.
Il Koru La – Il regno del ghiaccio e del vento
Più avanti, la strada si stringe tra curve scoscese e pendii vertiginosi. I versanti di roccia nuda si alternano a valloni erbosi e torrenti color turchese. Il Koru La, a 5.040 metri, domina l’intera regione sotto l’ombra del maestoso Nojin Kangtsang (7.206 m), la montagna sacra che scintilla come un muro di cristallo.
Il valico è un luogo sospeso tra cielo e terra: il vento taglia il viso, le bandiere di preghiera si tendono come vele, e ogni rumore si dissolve nel bianco della neve. È una salita che toglie il fiato — nel corpo e nello spirito — dove il viaggio diventa meditazione e l’altitudine insegna l’umiltà.
Oltre il Koru La, la strada serpeggia su creste friabili, tracciata a mezza costa su pendii che precipitano per centinaia di metri. Le curve strette si aprono su un vuoto abissale, e l’azzurro del cielo sembra un lago rovesciato. È un tratto che sfiora la vertigine, dove la bellezza si mescola al rischio, e ogni curva è un atto di fiducia.
Il Kampa La – La soglia del turchese

Infine, il Kampa La (4.790 m). Qui la terra si apre d’improvviso in un panorama che mozza il respiro: sotto di noi si distende il lago Yamdrok Tso, un’immensa pietra di turchese incastonata tra montagne color rame. Le acque, immobili e limpide, riflettono le nuvole in un silenzio perfetto. Intorno, tende nomadi e yak punteggiano le rive, mentre le bandiere di preghiera frusciano tra gli spuntoni di roccia. È un luogo che sembra appartenere più al cielo che alla terra — uno spazio sacro dove la geografia diventa religione.
Dall’alto, lo sguardo segue la lunga discesa verso oriente. La Friendship Highway si stende come un nastro nero tra le colline color rame, scendendo lentamente nella valle dello Yarlung Tsangpo. Qui il Tibet cambia volto: compaiono alberi, ruscelli, piccoli villaggi. I campi irrigati sostituiscono le distese d’alta quota, e il respiro torna pieno.
Lhasa: la città del Sole
Al tramonto, quando il sole cala dietro le montagne occidentali, appare Lhasa. La città emerge nella luce dorata come un miraggio di pietra e fede. Dall’alto del Kyi Chu Valley, i tetti bianchi del Potala brillano sul colle del Marpo Ri, mentre il quartiere del Barkhor e i monasteri di Sera e Drepung si accendono di riflessi dorati. Il vento porta con sé l’eco dei mantra serali, e per un istante tutto sembra sospeso: il rumore del mondo, il tempo, la fatica.
Così termina il nostro cammino verso Lhasa, la “città degli dèi”, che al tramonto si offre come una promessa e un mistero. Ma è solo l’inizio: dietro le sue mura bianche, tra i vicoli del Barkhor e i monasteri che sfiorano il cielo, si nasconde un mondo ancora tutto da raccontare. Nel prossimo articolo entreremo nel cuore vivo del Tibet, là dove la spiritualità si fa quotidiana e ogni pietra sembra avere una preghiera da sussurrare. Continuate a seguirci !
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