Da Kathmandu a Sakya: verso il Tetto del Mondo

All’aeroporto Tribhuvan, le formalità d’ingresso scorrono lente. In fila davanti agli sportelli, compiliamo uno dopo l’altro i moduli verdi del visto: nove permessi turistici validi per trenta giorni e un solo rientro ciascuno. Dopo l’ultimo timbro, un po’ storto ma valido, ci ritroviamo nel frastuono dell’uscita. Il signor Ang Kami, la nostra guida e corrispondente locale, ci aspetta con un sorriso largo e un cartello scritto a mano. Ci stringiamo la mano sotto la pioggia e fissiamo l’appuntamento per il 14 agosto 1995, data in cui dovremo rientrare a piedi dal confine di Sher-Hilsa, dopo aver attraversato l’altopiano tibetano.

Kathmandu ci accoglie avvolta in una coltre di pioggia e fumo. Il traffico, anarchico e febbrile, si muove a scatti: motorini che sfrecciano nel fango, camion stipati di merci, carretti trainati da buoi, cani e bambini che attraversano senza guardare. Lasciamo la città lentamente, mentre il buio scende e la pioggia batte sui finestrini. Il nostro pulmino giapponese arranca sulla strada che risale verso nord-est, arrampicandosi tra le prime gole himalayane.

Il nostro bus nel traffico di Kathmandu

La carreggiata è stretta ma percorribile: a tratti franata, a tratti ricoperta di fango. Il parabrezza si appanna, i fari fendono una nebbia densa come cotone, e il motore geme sotto gli strappi delle salite. Ogni curva è un piccolo atto di fede. A volte, dalla montagna scivolano giù massi e torrenti d’acqua.

Il nostro autista sterza con calma millimetrica, come se la paura non lo riguardasse. Noi, invece, la sentiamo tutta, nel silenzio improvviso che cala tra un sussulto e l’altro. Verso sera, esausti, ci fermiamo in una locanda di strada. Tavoli storti, sedie di latta e un fumo denso che esce dalla cucina come un banco di nebbia.

Sul tavolo arriva un piatto di riso con salsa verde-giallognola, sorprendentemente buono, accompagnato da carne speziata e una birra tiepida. L’acqua minerale è la sola certezza igienica, mentre i bicchieri raccontano storie che è meglio non approfondire. Eppure, c’è un calore autentico. I nepalesi ci sorridono, servono con rispetto e parlano un inglese spigoloso ma gentile. C’è un senso di ospitalità istintiva, di accoglienza che sopravvive alla povertà.

Dopo cinque ore di marcia e 122 chilometri percorsi, abbiamo raggiunto Tatopani (1.873 m), tre chilometri prima del confine di Kodari, già chiuso a quest’ora. Pernottiamo nella sola guest-house disponibile: nove letti, pareti scrostate, coperte umide e qualche sospetta colonia di cimici. Paghiamo 900 rupie in tutto. Ci dividiamo le stanze in silenzio. Fuori piove ancora, regolare, insistente. L’acqua scivola lungo le lamiere del tetto e riempie la notte di un suono antico, ipnotico. È il nostro primo sonno nepalese, e per qualche ora, sotto la pioggia, il mondo sembra sospeso.

Una rgazzina Nepalese a Tatopani
Bambina nepalese a Tatopani
Tatopani (1.873 m), tre chilometri prima del confine di Kodari in Nepal
Arrivo a Tatopani sul confine Cinese
La nostra guest-house a Tatopani prima del confine Cinese - Tibetano
La nostra “guest-house” a Tatopani

Oggi, la strada da Kathmandu a Kodari, conosciuta come Araniko Highway o Friendship Highway nel tratto nepalese, è teoricamente ancora percorribile. Kodari oggi è un posto di confine chiuso, fortemente danneggiato dal terremoto del 2015. Il valico ha subito gravi danni e al momento non è operativo per il traffico passeggeri o commerciale, anche se rimane una località di importanza storica sul confine Nepal-Tibet

L’accesso al Tibet dalla parte nepalese oggi avviene prevalentemente da Gyirong (Jiulong), una località più a ovest rispetto a Kodari, collegata da una strada moderna e asfaltata. Gyirong è diventato il principale valico utilizzato per entrare in Tibet dopo la chiusura di Kodari. Tatopani, un tempo villaggio di frontiera con sorgenti termali e guest-house per viaggiatori, è oggi semideserto, in attesa di rinascita. Il viaggio del 1995 resta così una fotografia irripetibile: l’eco di un Nepal autentico, ancora lontano dal turismo di massa, dove la pioggia, il fango e la pazienza erano parte stessa dell’avventura.

NOTA STORICA

Il terremoto del Nepal nel 2015

Il 25 aprile 2015, un devastante terremoto di magnitudo 7.8 colpì il Nepal, con epicentro nella regione di Gorkha, a nord-ovest di Kathmandu. La scossa e le successive repliche causarono oltre 9.000 morti e 22.000 feriti, distruggendo villaggi interi e monumenti storici. Le città della Valle di Kathmandu — in particolare Durbar Square, Bhaktapur e Patan — subirono danni ingentissimi, mentre nelle regioni montane del Langtang e del Sindhupalchok interi villaggi furono cancellati da frane e valanghe.

Il sisma cambiò per sempre il volto del Nepal. La ricostruzione — lenta ma ostinata — ha visto il contributo di decine di organizzazioni internazionali e di migliaia di volontari. Oggi, a distanza di anni, Kathmandu e la valle newar sono tornate a vivere, ma lungo le montagne del Langtang e le valli del confine tibetano si percepisce ancora la ferita, profonda e silenziosa, di quei giorni di aprile.

Da Kodari a Old Tingri, la porta del Tibet

La pioggia della notte ha lasciato il cielo opaco e l’aria umida, densa di terra bagnata e fumo di legna. Alle sei, nella piccola lodge di Tatopani, una colazione spartana — caffè annacquato e frittata — ci restituisce un minimo di energia. La frontiera apre alle otto, ma alle sette e mezza siamo già in fila, i primi davanti ai cancelli di Kodari, dove il ponte dell’Amicizia unisce (e separa) Nepal e Tibet.

Il confine è una scena sospesa: camion fermi nel fango, portatori chini sotto casse di merce, soldati e curiosi che osservano in silenzio. Le formalità sono brevi — i visti per il Tibet si ottengono anche qui, tra un modulo e un timbro sbiadito. L’aria è pesante di umidità, e una pioggia sottile accompagna la lunga trattativa con i trasportatori nepalesi. Servono veicoli per raggiungere Zhangmu, dodici chilometri più avanti e cinquecento metri più in alto. Le tariffe cambiano a ogni sorriso. Dopo minuti di gesti, calcoli e sospiri, chiudiamo l’accordo: 80 dollari per tutto il gruppo, il prezzo del passaggio al “tetto del mondo”.

Attraversando il ponte dell’Amicizia

Vista dal ponte sospeso di Kodari, mentre il fiume Sun Kosi ruggisce sotto di noi.
Vista sul fiume Sun Kosi dal ponte sospeso di Kodari

Alle otto in punto saliamo su un camion indiano. Attraversiamo lentamente il ponte sospeso di Kodari, che vibra sotto il peso del mezzo, mentre il fiume Sun Kosi ruggisce sotto di noi. La pioggia si infittisce, il confine scompare dietro una cortina di nebbia, e in pochi metri siamo in Cina. La strada si arrampica subito in una sequenza di curve fangose e dirupi. Dodici chilometri di salita ci separano da Zhangmu, città verticale aggrappata alla montagna. Cinquanta minuti di clacson, fango e adrenalina.

La frontiera cinese è ordinata, con casermoni in cemento e bandiere rosse che gocciolano pioggia. Ci accoglie Tato, la guida tibetana del TIST — Tibet International Sports Travel, l’agenzia statale incaricata di gestire ogni movimento degli stranieri. Due Toyota Land Cruiser 4×4, polverose e imponenti, sono pronte per portarci fino a Lhasa e oltre.

NOTA STORICA

TIST – Tibet International Sports Travel

Negli anni ’90, entrare in Tibet non era una semplice questione di frontiere, ma un vero e proprio percorso burocratico e politico. Dopo l’apertura parziale della regione al turismo straniero negli anni ’80, il governo cinese impose regole rigidissime di accesso e controllo. Ogni gruppo di viaggiatori doveva obbligatoriamente appoggiarsi a una agenzia governativa autorizzata, tra cui la più importante era il TIST – Tibet International Sports Travel, con sede a Lhasa.

Il TIST era una sorta di “braccio turistico” dello Stato: forniva guide ufficiali, autisti, veicoli 4×4, interpreti e soprattutto gestiva i permessi di viaggio (Travel Permit, Aliens’ Travel Permit, Military Area Permit), indispensabili per attraversare l’altopiano tibetano.
I viaggiatori non potevano muoversi in autonomia. Ogni itinerario doveva essere approvato in anticipo, e le tappe fissate con precisione quasi militare. Cambiare percorso o pernottare in un villaggio non previsto comportava rischi concreti: multe, interrogatori, o addirittura l’espulsione.

Oggi, a trent’anni di distanza, il sistema non è cambiato molto: il TIST non esiste più come nome, ma le agenzie autorizzate — controllate da Pechino — continuano a gestire i permessi e a fornire guide obbligatorie ai viaggiatori stranieri.
La differenza è che ora i 4×4 Toyota sono nuovi di zecca, le strade asfaltate e i gruppi arrivano in carovana. Ma lo spirito d’avventura, quello sì, resta lo stesso.

Verso Nyalam: il respiro dell’altitudine

La pista per Nyalam è un serpente di fango e pietre, scavato nella montagna. A tratti franata, a tratti cancellata dall’acqua. Saliamo rapidamente: i tornanti seguono la gola del fiume fino a oltre 3.700 metri. Nel primo pomeriggio raggiungiamo Nyalam, un pugno di case di pietra e lamiera sferzate dal vento. Pranziamo in una piccola locanda con riso, zuppe e verdure speziate. Dopo pranzo, con il sole che filtra tra le nubi, saliamo alle grotte di Milarepa: un piccolo gompa arroccato a quasi 4.000 metri. Le bandiere di preghiera si tendono come vele colorate, e il panorama sulla valle è vasto e immobile.

Affrontiamo il Tong La Pass (5.020 m), il primo grande valico tibetano. L’aria è tagliente, sottile, quasi metallica. I nostri Land Cruiser arrancano, i motori tossiscono, e persino respirare diventa uno sforzo. Sul crinale, il vento solleva le lungta — le bandiere di preghiera — che frustano l’aria come fruste di seta. L’orizzonte si apre: montagne viola e blu si allungano fino all’infinito, sotto un cielo che sembra più vicino della terra.

I nostri Land Cruiser arrancano lungo la strada per il Tong La Pass
I nostri Land Cruiser arrancano lungo la strada per il Tong La Pass

Scendiamo lentamente verso la piana di Old Tingri (4350 m). La luce muore presto, e quando arriviamo, alle 21:00, la pioggia riprende sottile e continua. Il nostro lodge è spartano, ma accogliente: zuppa di verdure, patate e riso per cena. Poi solo silenzio e respiro corto. Durante la notte, tutti soffriamo il mal di montagna — mal di testa, nausea, sonno agitato. È l’altitudine che ci mette alla prova. Ma fuori, nel buio, le bandiere continuano a danzare nel vento, e nel loro fruscio c’è tutta la voce del Tibet.

Da Tingri a Sakya: attraverso i passi dell’altopiano tibetano

La notte trascorre quasi insonne. La quota — oltre 4.300 metri — ci mette alla prova come non mai: mal di testa, nausea, torpore. Vomito più volte, cercando di respirare piano per non sentire la testa scoppiare. L’aria è gelida e rarefatta, ogni respiro affatica. Dal tetto, coperto di terra e sterco secco, la pioggia filtra lentamente, cadendo in gocce regolari sul pavimento di terra battuta.

Mi sistemo in un angolo più asciutto, ma presto anche quello diventa un pantano. Alla fine mi sposto nel letto dell’amico Piero, l’unico rimasto all’asciutto. Fuori continua a piovere, e verso l’alba il rumore dell’acqua si trasforma in un silenzio ovattato. Quando apro gli occhi, scopro che la pioggia si è mutata in neve: cinque centimetri di bianco coprono il cortile, le Toyota e i tetti bassi delle case. È un agosto che sembra novembre.

Ci svegliamo sotto un cielo grigio e pesante, carico di nuvole basse. Dentro la lodge il freddo punge la pelle, e l’aria odora di fumo e legno bagnato. La colazione è rapida e spartana: tè caldo, miele e chapati. Il miele addolcisce per un momento la fatica, ma il fiato corto ricorda che siamo ancora a più di quattromila metri. Alle 9:15 partiamo, lasciando Tingri immersa nel bianco.

La strada corre tra alture spoglie e distese di ghiaia. Lungo il percorso, a New Tingri (4.270 m), un check-point militare interrompe la marcia: soldati silenziosi controllano i visti e timbrano i passaporti. L’aria è fredda, il vento carico di neve sottile. Dopo mezz’ora riprendiamo a salire.

Il passo successivo è il Gyatso La, a 5.220 metri, il punto più alto di tutta la via tra Kathmandu e Lhasa. Arriviamo alle 13:30. La strada serpeggia tra montagne spoglie, e sul crinale un cippo di pietra segna la quota. Ci fermiamo pochi minuti per una foto: il vento solleva nuvole di neve e ci taglia la faccia come vetro. Le bandiere di preghiera frustano l’aria. La vista si apre su un orizzonte irreale: montagne bianche e cielo d’acciaio. Alcuni di noi accusano mal di testa e nausea, ma il silenzio del luogo impone rispetto. È un confine fisico e spirituale: oltre questo passo comincia davvero l’altopiano tibetano.

Sul passo Gyatso La a 5220 metri di quota

La discesa verso Lhaze è lenta e faticosa. La strada principale è in rifacimento, e la nostra guida Tato devia lungo una pista secondaria che segue il letto asciutto di un torrente. Le Toyota sobbalzano tra sassi e buche, la polvere si mescola all’odore di benzina. Quando arriviamo a Lhaze, alle 14:30, il cielo si è schiarito, ma il vento resta gelido. Ci fermiamo per pranzo al Furong Restaurant, un locale semplice dove servono riso e verdure per trenta yuan a testa. Il tè bollente al gelsomino è un sollievo breve ma intenso.

Alle 15:45 ripartiamo in direzione di Sakya, deviando per una pista sterrata di una trentina di chilometri che si stacca dalla via principale per Shigatse. Il paesaggio si apre, vasto e deserto, con colline color ocra e ombre lunghe. Il sole del pomeriggio rimbalza sulle pietre e la luce si fa abbacinante. Verso le 17:15 entriamo nel villaggio di Sakya. Le mura del monastero dominano l’abitato: grigie, massicce, decorate da fasce rosse e bianche.

NOTA STORICA

La Rivoluzione Culturale in Tibet (1966-1976)

La Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao Zedong nel 1966, fu una campagna politica e ideologica volta a “purificare” la società cinese da tutto ciò che fosse considerato feudale, borghese o controrivoluzionario. In Tibet — annesso ufficialmente alla Cina nel 1951 — questa rivoluzione divenne una tragedia culturale. Monaci e religiosi furono perseguitati, le scuole monastiche chiuse, le statue d’oro e i testi sacri distrutti in nome del progresso socialista.
Tra il 1966 e il 1976, si stima che oltre seimila monasteri tibetani siano stati rasi al suolo o gravemente danneggiati. I Guardie Rosse imposero l’ateismo di Stato, vietando riti e cerimonie. Solo pochi monasteri — come Sakya, Drepung, Sera e Tashilhunpo — sopravvissero, spesso trasformati in magazzini o caserme. Dopo la morte di Mao, nel 1976, il Tibet iniziò lentamente a riaprire i suoi luoghi sacri. Molti dei complessi oggi visitabili sono stati ricostruiti dopo gli anni ’80, grazie anche a fondi provenienti da fedeli e diaspora tibetana.

Sakya Monastery: il cuore grigio del Tibet

Il Monastero di Sakya, fondato nel 1073, fu il centro della scuola Sakyapa, una delle quattro principali correnti del buddhismo tibetano. Durante il periodo mongolo (XIII secolo), i lama di Sakya governarono di fatto il Tibet, instaurando una teocrazia riconosciuta dall’impero di Kublai Khan. Oggi il monastero è ancora attivo, con una comunità di circa 70 monaci. La sua biblioteca custodisce una delle più vaste raccolte di testi tantrici e cronache tibetane mai esistite: più di 20.000 volumi, molti dei quali scritti su foglie di palma e conservati per secoli in perfette condizioni grazie al clima secco dell’altopiano.

Il monastero di Sakya
Il monastero di Sakya

Paghiamo venti yuan per l’ingresso e seguiamo la guida attraverso sale e cortili. Le statue dorate di Buddha, le colonne lignee, le lampade al burro di yak: tutto emana un senso di potenza calma. Il complesso è stato in parte ricostruito dopo la Rivoluzione Culturale, ma conserva ancora la sua imponenza. Ospita una biblioteca di oltre ventimila testi sacri, avvolti in stoffe gialle e rosse, allineati su scaffali di legno antico. L’odore d’incenso e di burro bruciato impregna l’aria: il respiro stesso del Tibet.

Dopo la visita, ci sistemiamo al Sakya Hotel, una guest house modesta dalle pretese altisonanti: venti yuan a testa per letti duri e lenzuola umide. Alle 20:30 ceniamo nel piccolo Sichuan Lu Xu Restaurant, aperto solo per noi. Nessun altro cliente, solo il fumo della cucina e il profumo pungente di peperoncino e aglio. La sera cala fredda e silenziosa. Stavolta la pioggia resta fuori, ma la quota continua a farci compagnia: il battito è irregolare, il respiro affannoso.

CURIOSITA’

Il tesoro nascosto di Sakya

Nel 2003, all’interno del monastero di Sakya, nel Tibet occidentale, fu scoperta una biblioteca segreta contenente circa 84.000 manoscritti arrotolati, nascosti dietro un muro lungo 60 metri e alto 10. Gran parte dei testi sono buddhisti ma vi si trovano anche opere di letteratura, storia, astronomia e matematica. I fogli, alcuni lunghi 1,82 m e larghi 45 cm, sono scritti in tibetano e sanscrito, e alcuni tra i più rari contengono sutra decorati su foglie di colocasia in quattro colori.

La scoperta ha attirato l’attenzione degli studiosi, poiché questi testi conservati per oltre un secolo permettono di ricostruire secoli di cultura tibetana e buddhista. La biblioteca giaceva silenziosa dietro mura secolari, fino a quando la sua esistenza è stata resa pubblica solo nel 2022, aprendo nuovi orizzonti sulla storia del sapere nell’altopiano himalayano.

Partecipante al festival di Gyantse con indosso abiti tradizionali e una maschera.

Verso il cuore del Tibet: lungo la via per Lhasa

Il mattino a Sakya si apre freddo e immobile. Nell’unico ristorante del villaggio — il vecchio Sichuan Lu Xu — l’odore di olio fritto riempie l’aria. Nel 1995 servivano frittatine e noodles in brodo, e i tavoli erano appiccicosi di umidità. È una colazione spartana, ma sufficiente per rimettersi…

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