Maun, gennaio 1993. Arrivare al villaggio di Maun dopo chilometri di polvere era già di per sé un piccolo miracolo. La strada asfaltata finiva presto e, quando finalmente comparve il cartello dell’Island Safari Lodge, avevamo l’impressione di aver trovato un porto sicuro nel mezzo del nulla.
Il campeggio si apriva in una radura sabbiosa, ombreggiata da grandi alberi.
Le piazzole non avevano certo il rigore geometrico dei campeggi europei: era più un “mettiti dove capita”, con qualche presa di corrente che funzionava e altre che sembravano puramente decorative. Ricordo la sabbia fine che entrava ovunque, nelle scarpe e nella tenda, e la sensazione di avere addosso la polvere del Kalahari anche dopo la doccia.

Gli “ablutions”, come li chiamavano, erano semplici: due file di docce e lavabi, con l’acqua calda che arrivava quando voleva lei. Non ci importava, bastava poter sciacquare via il sudore della giornata. L’acqua aveva un retrogusto ferroso, quasi rugginoso, ma ci sembrava un dettaglio insignificante. Quello che contava era sedersi al bar, ordinare una birra gelata e scoprire che lì si incontrava il mondo intero: tedeschi con i loro enormi camion overland, sudafricani che partivano per la pesca, viaggiatori solitari con diari logori pieni di appunti.
Il fiume scorreva lento accanto al lodge, e nelle notti silenziose si sentivano gli ippopotami brontolare nell’acqua. Una volta intravedemmo un coccodrillo scivolare nel fiume, lasciandoci quella sottile inquietudine che in Africa non ti abbandona mai.

Oggi, più di trent’anni dopo, l’Island Safari Lodge è ancora lì, con le sue piazzole sparse e l’ombra degli alberi. Al posto del vecchio bar impolverato c’è una veranda più elegante, con Wi-Fi che funziona (a tratti) e un menù pensato anche per i turisti di passaggio. Due piscine permettono di rinfrescarsi, e chi ha la tenda sul tetto del 4×4 può godersi un minimo di comfort. Ma le ablutions raccontano ancora la stessa storia: semplici, un po’ datate, funzionali ma non memorabili.
I prezzi, invece, non sono rimasti quelli di un tempo. Quello che nel ’93 costava una manciata di dollari oggi ne costa venti o trenta, e molti viaggiatori lo trovano caro rispetto ad alternative come l’Old Bridge o il Sedia. Ma nonostante questo, il fascino rimane: non è un lodge di lusso, e forse non deve esserlo. Rimane un luogo di passaggio, un crocevia di storie, dove ancora oggi ti siedi al bar e ti ritrovi a parlare con qualcuno che domani partirà verso il Delta o il Chobe, proprio come accadeva trent’anni fa.
All’ombra dei Baines’ Baobab
La giornata si presentava già torrida quando lasciammo Maun: ore di strada asfaltata ci separavano dalle prime piste verso il margine del Kalahari, verso le Pan e i maestosi Baines’ Baobab. Il sole ci avvolgeva senza pietà mentre facevamo una breve sosta per sgranchirci le gambe; la polvere si infilava tra le scarpe e il vento caldo sembrava volerci ricordare quanto fossimo lontani dal mondo civilizzato.
Giunti alle saline, la crosta bianca si presentava ingannevole: il passo falso poteva trasformarsi in un pantano di argilla. Ob, il nostro autista, esitava, indeciso se passare dove la superficie sembrava asciutta o dove l’acqua suggeriva un rischio minore. Optammo per la seconda soluzione, e quando il veicolo scivolò attraverso una grossa pozza, un’onda ci travolse e ci fece ridere come bambini: il caldo e la fatica si dissolsero in quel momento di pura gioia.
Montammo il campo all’ombra dei Baines’ Baobab nel primo pomeriggio. Tutto intorno si stendevano le saline a perdita d’occhio, interrotte solo da qualche macchia di verde: la loro bellezza era essenziale, quasi lunare. Il sole picchiava troppo forte per esplorare subito, così ci abbandonammo a un breve riposo, ascoltando il silenzio che avvolgeva quella vastità sconfinata.

Nel tardo pomeriggio ci avventurammo verso una macchia verde poco distante: le tracce fresche di animali selvaggi ci ricordavano che eravamo soli in quell’angolo remoto del Kalahari. Alcune impronte ci erano familiari, altre completamente nuove.
Ob ci rassicurò: stanotte avremmo dormito tranquillamente all’aperto, sotto un cielo che sembrava infinito. La luna piena rischiarava la distesa salina, delineando in silhouette i grandi baobab, e il cielo limpido invitava alla contemplazione. Era una delle serate più belle del viaggio, forse della mia vita.
Oggi, nel 2025, i Baines Baobabs restano un simbolo iconico del Parco Nazionale Nxai Pan, sette alberi secolari immortalati per la prima volta nel 1862 dal pittore e esploratore Thomas Baines. La distesa salata, Kudiakam Pan, continua a trasformarsi durante la stagione delle piogge in un lago riflettente, richiamando animali selvatici, mentre nella stagione secca i paesaggi rimangono aridi e spettacolari, perfetti per la fotografia e l’osservazione della fauna.
I campeggi non sono più improvvisati sotto gli alberi: oggi esistono strutture private nelle vicinanze, come il Baines Baobab Campsite, con latrine e docce rudimentali. Rimane comunque necessaria una completa autosufficienza: il senso di isolamento e libertà non è diminuito, e le notti stellate continuano a incantare. Zebre, giraffe, leoni e ghepardi animano l’orizzonte, come accadeva trent’anni fa, mentre la strada per arrivarci richiede ancora un 4×4 deciso e una buona dose di cautela, soprattutto in caso di piogge.
Seduto all’ombra dei Baines Baobab, con il cielo stellato sopra di me, mi accorgo che il filo che lega il passato al presente è più sottile e potente di quanto pensassi. L’Island Safari Lodge e le Pan del Kalahari sono luoghi molto diversi, eppure raccontano la stessa storia: quella di viaggiatori che cercano l’autenticità, il contatto con la natura e con se stessi, lontano dalle comodità quotidiane.
Nel ’93, ogni giorno era un piccolo rischio, un’incognita: la strada poteva scomparire sotto la sabbia, l’acqua poteva mancare, il veicolo poteva arrendersi. Oggi le piste sono più battute, le informazioni abbondano, i mezzi più affidabili, ma la sfida e la meraviglia non sono diminuite. Essere overlander significa accettare quell’equilibrio: tra preparazione e improvvisazione, tra il controllo e l’ignoto, tra la sicurezza del presente e la nostalgia del passato.
Osservando i baobab proiettare ombre lunghe sulle saline, possiamo pensare che forse il senso più profondo di questi viaggi non sta solo nei luoghi che attraversiamo, ma nella capacità di vedere il mondo con occhi curiosi e liberi, ieri come oggi. Ogni bivacco, ogni pista, ogni notte sotto le stelle diventa un frammento di memoria e di esperienza, che ci accompagna ben oltre la fine del viaggio. Alla fine, l’essenza dell’overland non cambia: è la ricerca di libertà, di bellezza e di autenticità, un passo alla volta, da Maun ai Baines Baobab, ieri e oggi.
Se anche tu senti il richiamo della strada, del cielo stellato e della libertà assoluta, lascia un commento, condividi la tua esperienza o semplicemente racconta quale viaggio sogni di vivere. Perché in fondo, ogni storia di overlander non è mai solo personale: diventa parte di un percorso che tutti possiamo seguire, ieri come oggi.
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