Partimmo verso il Chobe National Park con l’eccitazione di chi sapeva che ogni chilometro poteva regalare incontri straordinari. Già lungo la strada, la natura si mostrò generosa: antilopi saltellavano, zebre attraversavano i nostri percorsi, elefanti tagliavano lentamente la pista e, persino, alcune giraffe ci costrinsero a rallentare, quasi a ricordarci chi comanda in questa terra.
Il paesaggio era quello delle cartoline d’Africa: vegetazione lussureggiante e panorami che sembravano non finire mai, un’infinita distesa di verde punteggiata dagli animali che popolavano questi luoghi. All’ingresso del parco, la prima emozione intensa ci colpì. Sul ciglio della strada, quasi come un miraggio, una leonessa ci osservò con calma. Cercai in fretta la macchina fotografica, ma la natura aveva i suoi tempi: la leonessa ci scrutò per un istante e poi scomparve tra l’erba alta. Fu un incontro che lasciò senza fiato, un promemoria di quanto fosse imprevedibile e selvaggia la savana.
Nel corso della giornata, il parco ci regalò ancora elefanti, giraffe, zebre e ippopotami immersi in scenari che sembravano sospesi tra realtà e sogno. La sera raggiungemmo quello che nel mio diario indicavo come Serondela Camp, ma che oggi corrisponderebbe all’Ihaha Camp, lungo il fiume Chobe nella regione di Serondela, circa 35 km a ovest di Kasane.

Montammo il campo attorno a un grande albero, disponendo tende e Land Rover in un cerchio che ricordava le prime avventure dei pionieri africani. Ihaha Camp si trovava nel cuore del parco, con piazzole non recintate affacciate sul fiume, alcune ombreggiate da grandi alberi e altre più aperte per godere della vista sulle pianure circostanti.
Ogni piazzola disponeva di braciere e postazione per barbecue, mentre i blocchi servizi centrali offrivano docce calde e servizi igienici a sciacquone. La manutenzione era regolare, anche se talvolta la disponibilità di acqua calda variava. Non riuscimmo più a trovare bottiglie di acqua potabile e fummo costretti a raccogliere l’acqua del campo, da purificare con le pastiglie di sali d’argento. Ci vollero due ore prima di poterla bere. La razione era di un litro a testa per l’intera giornata.

Le guide ci avvertirono delle presenza di babbuini: vivevano in gruppi numerosi, fino a centocinquanta esemplari, e avevano imparato che campeggi e lodge erano luoghi facili da saccheggiare. Bisognava tenere cibo e oggetti preziosi nelle tende, altrimenti di notte rischiavamo visite indesiderate. Il loro muso canino incuteva rispetto, e le urla che sentimmo durante la notte ci fecero capire che non erano lontani.
La posizione sul fiume offriva avvistamenti ravvicinati di fauna selvatica: elefanti, leoni, bufali e ippopotami si muovevano liberi intorno a noi, mentre una varietà di uccelli acquatici e rapaci completava il quadro. Percorsi panoramici lungo il fiume e itinerari per game drive permettevano di esplorare il parco sia verso est sia verso ovest, rendendo possibili escursioni di più giorni.
La mia prima vera notte africana fu tutt’altro che tranquilla. Sembrava che tutti gli animali della foresta si fossero radunati attorno a noi. Domani la sveglia sarebbe suonata alle 6:30 per il nostro primo game drive: qualche ora di sonno, nonostante tutto, bisognava pur trovarla.
Verso Savuti, attraverso la Mababe Depression
Il viaggio verso le distese e le paludi di Savuti fu lungo e faticoso: circa cinque o sei ore di piste sabbiose e dissestate, attraversando la Mababe Depression, l’area meridionale del Chobe che un tempo era un grande lago. Lungo il percorso passammo per le Ngwenzumba Pans, tra Serondella e Savuti, e subito ci accorgemmo di quanto la morfologia e la vegetazione fossero diverse da quelle lungo il Chobe. Qui predominavano branchi di bufali, elefanti e numerose specie di antilopi e impala.

Arrivammo infine al Savuti Camp, un piccolo accampamento protetto da una recinzione elettrica pensata per scoraggiare gli elefanti, numerosissimi in quell’area. Le strutture erano essenziali: niente docce né toilette funzionanti, solo un tubo da cui sgorgava un rivolo di acqua giallastra. Gli elefanti avevano infatti distrutto i vecchi impianti, rendendo l’unico bagno praticamente inutilizzabile.
La notte al campo avrebbe dovuto essere tranquilla, ma le guide ci raccomandarono di fare attenzione alle iene e di non lasciare cibo all’aperto. Al mattino seguente scoprimmo con sorpresa che le iene non si erano avvicinate, ma un branco di leoni aveva visitato il campo: le tracce intorno alle tende erano inequivocabili. Il ricordo mi fece correre un brivido lungo la schiena.
Il Savuti Camp, pur spartano e privo di comodità, si rivelò un luogo indimenticabile, immerso in una natura selvaggia e imponente, dove ogni piccolo dettaglio diventava un ricordo vivido e tangibile. Oggi il Savuti Campsite dispone di 7 piazzole con servizi igienici condivisi, docce calde a energia solare e acqua potabile. Le aree restano sabbiose e gli animali selvatici non mancano: elefanti, leoni, leopardi e perfino cani selvatici possono apparire nei dintorni. Il campeggio non è economico (50–100 USD a persona, più tasse del parco) e il booking non è sempre semplice, ma la posizione straordinaria lungo il Savuti Channel ripaga chi cerca un’esperienza autentica di safari.
Alla scoperta del Khwai e dei suoi giganti
Il giorno successivo ci dirigemmo verso il North Gate della Moremi Wildlife Reserve. Pochi chilometri dopo l’inizio del percorso ci trovammo di fronte a un branco di elefanti africani che attraversava la foresta. Erano enormi rispetto ai loro cugini asiatici, con lunghe orecchie e maschi che superavano facilmente i 6.000 kg. I branchi, composti di dieci-dieci individui, erano rumorosi e in continuo movimento alla ricerca di cibo e acqua. La loro capacità distruttiva ci impressionava: abbattavano alberi come fossero ramoscelli e si avvicinavano pericolosamente alla nostra jeep.
Uno di loro ci notò, si innervosì e cominciò a scuotere il capo, agitare la proboscide e barrire. Restammo immobili e in silenzio, mentre gli interminabili secondi sembravano un’eternità. Solo quando l’elefante si allontanò, il nostro cuore rallentò il ritmo.

Attraversammo quindi un ponte di tronchi, tra una foresta in parte devastata dagli elefanti, fino a raggiungere il North Gate. Il Khwai Campsite non offriva alcuna protezione: dovemmo scegliere con attenzione una zona ritenuta sicura e rimanere vigili durante la notte. Montammo le tende e ci concedemmo qualche ora di relax, mentre all’orizzonte si profilava un temporale. Finora eravamo stati fortunati: nonostante la stagione delle piogge, non avevamo ancora preso una goccia. Ma l’acquazzone arrivò improvviso e durò poco, sufficiente a rendere inservibile una delle tende. Ce la cavammo montando rapidamente una tenda di scorta, prima che la pioggia riprendesse.
Verso le 16:00 ripartimmo per un nuovo safari, diretti alle Hyppo Pools, le piscine degli ippopotami. Arrivammo al tramonto e lo spettacolo fu magnifico: un lago d’acqua piovana circondato dalla foresta, decine di ippopotami immersi, che emergevano solo con occhi, orecchie e narici. Presto notarono la nostra presenza e iniziarono a emettere i loro versi caratteristici, irritati dalla visita. Uno di loro si mosse verso di noi, seguito dagli altri, come per difendere il territorio; rispettosamente ci allontanammo.

Nota per i viaggiatori di oggi: Il Khwai Campsite, situato nella regione del Khwai nel Delta dell’Okavango, offre oggi piazzole più spaziose immerse nella vegetazione locale, spesso ombreggiate da alberi e con accesso diretto a corsi d’acqua. Gli animali selvatici, tra cui elefanti, ippopotami, babbuini e sciacalli, frequentano ancora regolarmente l’area, richiedendo attenzione e rispetto delle distanze.
Le piazzole dispongono di braciere e collegamento all’acqua corrente. Gli edifici per le abluzioni sono generalmente puliti, con acqua calda disponibile nelle ore diurne grazie a impianti solari. Alcuni visitatori segnalano rumori provenienti dalla torre dell’acqua, mentre l’accesso al campeggio può essere complesso per veicoli di grosse dimensioni e richiede prenotazione anticipata. La posizione del campeggio permette di esplorare facilmente punti di interesse locali come la Hyppo Pool e altre aree faunistiche, con possibilità di esperienze immersive nei villaggi vicini.
La notte al Khwai Camp si chiuse con il silenzio interrotto solo dai richiami lontani della fauna. Sdraiato nella mia tenda, ripensai alla giornata: dall’elefante minaccioso agli ippopotami curiosi. Ogni incontro, ogni rumore, ogni traccia lasciata nel fango era un promemoria di quanto la savana africana fosse viva, imprevedibile e autentica.
Oggi, i campeggi come il Khwai offrono più comfort, prenotazioni sicure e servizi igienici funzionanti, ma il cuore dell’esperienza resta lo stesso: la vicinanza alla natura selvaggia, l’emozione di sentirsi ospiti in un mondo che segue le proprie regole. Essere overlander significa accogliere questa imprevedibilità, vivere ogni momento con attenzione e meraviglia, e lasciare che i ricordi scolpiscano le avventure nel tempo.
Se anche tu sogni di ritrovare la magia di quei luoghi, preparati a partire senza fretta, con rispetto per la fauna e un pizzico di spirito pionieristico: perché l’Africa più vera non aspetta chi teme di sporcarsi le scarpe o di perdere il sonno per un elefante al tramonto.
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